Avere tanti amici è sempre un bene? Un punto di vista psicologico sull’amicizia nell’era di Facebook ed Instragram
Dalla ricerca che collega l’uso di Facebook alla depressione fino ad arrivare agli studi che provano a quantificare il numero massimo di amicizie che una persona può instaurare. In questo breve articolo si proverà ad analizzare il senso psicologico e sociale che il sentimento dell’amicizia ha oggigiorno per la nostra società.
I rapporti di amicizia sono un contributo ed uno strumento essenziale per la crescita di ogni individuo. Essi infatti consentono, per esempio, di governare ansie e paure attraverso la condivisione con l’altro di uno spazio mentale all’interno del quale è possibile mettere in campo diversi fattori: dall’esigenza di essere ascoltati alla rassicurazione che ogni persona prova quando capisce che i propri sentimenti che arrecano dolore e destabilizzano sono stati provati, in modo simile, anche da un’altra persona.
Insomma l’amicizia permette di gestire tutti quegli stati emotivi che altrimenti il singolo dovrebbe affrontare in solitudine, e lo fa consentendoci di fare pratica in un modo protetto e rassicurante. Per questo l’amicizia ricopre un ruolo così significativo dai primissimi anni di vita dell’essere umano. I bambini piccoli imitano tra loro ciò che vedono fare dai genitori per riuscire anche ad esorcizzare paure e incomprensioni. Gli adolescenti, invece, spesso intraprendono giochi relazionali all’interno dei quali si mettono in scena delle situazioni che, anche se spesso in chiave ironica o buffa, riproducono situazioni che hanno arrecato ansia e paura o ipotizzano avvenimenti futuri che preoccupano.
E tutto ciò è stato dimostrato anche da numerose ricerche scientifiche. A Montrèal nel 2011 i ricercatori Adams, Santo e Bukowski hanno osservato un gruppo di 103 ragazzi tra i 10 e 12 anni (55 maschi e 48 femmine). Ad essi è stato chiesto di annotare su di un quaderno tutto ciò che capitava durante il giorno ed al contempo è stato loro misurato il livello di cortisolo (l’aumento di tale ormone è stato dimostrato essere collegato alle situazioni stressanti). I ricercatori canadesi hanno dimostrato che davanti a situazioni emotivamente dolorose i bambini che avevano accanto a sé un migliore amico avevano livelli di cortisolo più bassi, riuscendo a ristabilire più rapidamente le condizioni precedenti all’evento stressante. Mentre quando i soggetti erano privi di amicizie significative si è assistito ad un aumento significativo del cortisolo ed ad una importante diminuzione dell’autostima.
A riconferma di quel che fin qui abbiamo detto citiamo un detto, assai conosciuto e che tutti voi che ora state leggendo questo articolo avrete sicuramente usato più volte nella vostra vita, che recita così: “Chi trova un amico trova un tesoro”. Esso ha origini molto antiche – è presente nella Bibbia nel libro del Siracide (6,5-17) – e da millenni è stato impiegato per sottolineare l’importanza ed unicità che i legami amicali hanno nella vita umana e la centralità che rivestono nella buona riuscita di molti progetti di vita. Il proverbio però, se ci fate caso, è espresso al singolare e non al plurale. Si parla di un amico, non di amici. Questo perché da sempre l’amicizia è stata vista come un rapporto tra due persone che è assai differente da ciò che capita nei gruppi ed all’interno del quale i sentimenti e le dinamiche messe in piedi sono assai forti e pregnanti, tanto da essere spesso accomunati per intensità, nella letteratura e nell’arte, alle relazioni sentimentali.
Ciò implica che un individuo non possa o riesca ad instaurare un numero elevato di tali rapporti se non a costo di un dispendio eccessivo di energie che, in un’ottica di un’economia emotiva complessiva che non arrechi danni al sistema psichico individuale, dovrebbe essere controllato e limitato.
L’antropologo inglese Robin Dumbar nel suo testo “The Social Brain Hypothesis” del 1998 sostenne che l’evoluzione umana ha tarato la neocorteccia cerebrale per riuscire a gestire un numero di interazioni sociali amicali non superiore alle 150 unità. Tale numero, detto appunto “numero di Dumbar”, non potrebbe essere superato se non a discapito di un deterioramento dei rapporti esistenti.
Tale ricerca è precedente all’avvento dei Social Network. Siamo sicuri che valga ancora?
Osservando i social network che oggi tanto vanno di moda, da Facebook ad Instagram, vi sarà capitato di osservare che molti individui hanno una rete di contatti assai numerosa. Sono tanti i profili di Facebook, per fare un esempio, che annoverano migliaia di amicizie. Ma è possibile tutto ciò? Si possono avere così tanti rapporti amicali? Ed è un bene?
Lo stesso Dunbar ha rimodulato i dati delle proprie ricerche applicandole ai social network arrivando a rivedere per essi il “numero di Dumbar” comprendendolo tra i 150 e 250.
Mentre sempre dall’Università di Montréal arriva una ricerca che ha analizzato l’uso di Facebook e le sue influenze in un gruppo di ragazzi tra i 12 e i 17 anni. I risultati in poche parole dicono che i soggetti con più di 300 amicizie su Facebook sono più inclini a stress e depressione e non risultano essere più popolari.
La ricerca, ripresa da molte testate giornalistiche e da riviste online, pone in evidenza ciò che era assai facile da immaginare: una folta rete di contatti nel circuito dei social network non può essere assimilata ad una reale presenza di rapporti amicali solidi ed adeguati. Ed anzi si assiste sempre più spesso ad un aumento tra i giovanissimi di quel fenomeno di sostituzione massiccia dei rapporti di amicizia basati sulla condivisione di tempo e spazio con contatti sempre più virtuali.
Ma avere tanti amici su Facebook è sbagliato? Un genitore dovrebbe preoccuparsi se il proprio figlio adolescente ha più di 300 contatti sul proprio profilo?
I social network non sono di per sé sbagliati o nocivi ma lo diventano quando essi invece che strumento vengono impiegati come un sostituto di rapporti interpersonali. Facebook può essere utilizzato per comunicare in un modo veloce e diverso rispetto ad altre forme comunicative ma non deve diventare il luogo unico in cui esse trovano spazio. Instagram e le sue immagini devono servire per condividere idee e vissuti ad esse collegate ma questi ultimi devono continuare ad essere provati nella vita reale. Il nostro pensiero deve essere il risultato di un confronto con l’altro e non deve essere ridotto alle poche righe disponibili su Twitter. La nostra identità non ha alcun collegamento coi numeri di “Mi piace” che riusciamo a raccimolare sui diversi Social Network.
La sfida che la nostra società deve intraprendere è quella di integrare e sviluppare le nuove forme comunicative per riuscire a svilupparsi e crescere in modo sano, superando il rischio di dare vita a degli esseri umani che sono in realtà sempre più soli ed infelici.